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Politica estera: a che punto sono le complesse interrelazioni commerciali tra Occidente e Cina?

Febbraio 20, 2024

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e la susseguente applicazione di sanzioni contro la Russia, l’UE ha avviato, nel solco di quanto fatto dall’amministrazione americana nel 2018 durante la Presidenza Trump, un graduale disinvestimento negli scambi commerciali con la Cina. 

Negli ultimi 40 anni il processo di globalizzazione nell’ambito del commercio e della finanza ha contribuito alla creazione delle cosiddette Catene Globali del Valore le quali, saldando tra di loro i mercati, hanno originato una frammentazione dei processi produttivi – ed evolutivi – dislocati in diverse aree del pianeta. Infatti, chi ha benefi-ciato dei maggiori afflussi di capitali stranieri sono stati quei paesi che impiegano mano d’opera a basso costo, riuscendo, nel contempo, a esportare beni dal basso va-lore aggiunto, in direzione dei mercati dei Paesi maggiormente industrializzati. 

Seguendo il nuovo orientamento, ora anche l’Italia, per non restare isolata in Europa, ha abbandonato il protocollo firmato con il Governo Conte, la cosiddetta Nuova Via della Seta, ovvero il progetto di collegamento logistico e infrastrutturale della Cina con l’Europa, l’Africa ed il resto dell’Asia, espressione dell’intenzione della Cina di espandere la propria area di influenza per incrinare l’egemonia americana. 

La Cina 

Il paese del dragone si aprì al resto del mondo nel 2001, finendo per aderire all’Organizzazione Mondiale per il Commercio, l’OMC, e ottenendo in breve tempo uno sviluppo economico senza eguali, fino a diventare la Prima Economia Mondiale per potere di acquisto, e la seconda come PIL nominale. 

Questo ha portato la Cina a sovrastare le altre potenze in campo manifatturiero, arrivando a detenere il 35% della produzione globale lorda e, grazie a questo surplus finanziario, ha potuto diversificare gli investimenti, in campo immobiliare e nella difesa in primis, aumentando di fatto la dipendenza degli altri Paesi nei suoi confronti. 

La grande liquidità e la crescita guidata dalle esportazioni hanno progressivamente trasformato la Cina nel più grande creditore estero degli Stati Uniti, cosa che è alla base del rapporto di codipendenza che caratterizza le due economie. Nel 2013 la quota 2 

cinese del debito pubblico americano raggiungeva quasi l’11% (1,3 trilioni di dollari) mentre dal 2011, con la presentazione del piano quinquennale basato più sul consumo interno che sulle esportazioni, è iniziato il decoupling economico e finanziario. 

A creare ulteriori tensioni con il resto del mondo è stato lo spostamento degli investimenti dal settore immobiliare – oggi in sofferenza, vedasi il fallimento di Evergrande – a quello manifatturiero; grazie ai finanziamenti pubblici erogati dal Governo, il mercato cinese ha visto un surplus produttivo, che una volta saturata la richiesta interna, hanno portato la Cina a esportare all’estero, costringendo di fatto gli altri Paesi ad applicare dazi doganali per difendere le loro economie. 

Il protezionismo U.S.A. 

Gli U.S.A., per tutelare il loro mercato interno e quindi le proprie aziende dalla concorrenza cinese, nel 2018 hanno avviato una politica protezionistica nei confronti della dipendenza dal Dragone. L’amministrazione Trump varò infatti una politica di contenimento con l’ausilio di dazi sulle merci importate dalla Cina fino alla concorrenza del 25%, colpendo così il settore dell’alluminio, quello dell’acciaio, le batterie e la componentistica auto. Una vera e propria guerra commerciale nei confronti di Pechino, la cui risposta non si fece attendere, colpendo in maniera indiscriminata i prodotti statunitensi. 

Lo scontro è proseguito sotto l’amministrazione Biden, che ha ritenuto strategicamente prioritario disgiungere la propria economia da quella cinese, unendo repubblicani e democratici nel limitare l’espansione delle esportazioni cinesi, onde, e non è secondario, non perdere la leadership sul mercato globale. 

Gli U.S.A., a partire dalla guerra in Ucraina, hanno caratterizzato la loro politica estera con l’applicazione del friends-shoring, una sorta di stretta dipendenza reciproca con i Paesi alleati – Giappone, Corea del Sud, Unione Europea – cercando al contempo di controllare l’export degli stessi nei confronti della Russia. Partnership indirizzate anche verso le economie di India, paesi del Sud-Est asiatico, quali Vietnam e Taiwan, che consentirebbero agli stessi Paesi di sottrarsi all’ abbraccio soffocante dell’economia del Dragone. 

L’Europa 

Per quanto riguarda il vecchio Continente – eccetto l’Italia di cui abbiamo già detto – l’unica Nazione a vantare un surplus commerciale rispetto alla Cina è l’Irlanda e ciò, se il trend economico cinese dovesse mantenere gli attuali standard, rappresenterebbe un rischio concreto per i Paesi dell’Unione Europea. L’Europa, infatti, dipende dalla Cina per i beni utilizzati per la transizione energetica. Purtroppo, il protezionismo e le politiche dei dazi sulle importazioni dalla Cina non sembrano rappresentare a medio 3 

termine, per U.S.A. ed Unione Europea, la soluzione ideale per diminuire l’interdipendenza dalla Cina, soprattutto nel settore Automotive, dovendo gli stessi Paesi ricorrere ai sussidi degli Stati membri, aumentando così la competizione interna nel mercato comune ed attenuando l’efficacia dei progetti riguardanti la transizione energetica. 

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