Introduzione
In questi ultimi due mesi c’è un popolo sinora ai più semisconosciuto che ha conquistato la ribalta della scena politica internazionale: gli Houthi. Allora proviamo a capire chi sono, cosa vogliono ma soprattutto quali saranno le ricadute sull’economia globale, sulle imprese e sulle loro scelte strategiche causate dalla crisi yemenita.
È innegabile che non possa esistere un libero commercio imprescindibilmente dalla libera circolazione delle merci via mare, eppure, la crisi sta mettendo a nudo la “grande frammentazione” dell’ordine mondiale conosciuto.
Dopo quasi tre mesi di attacchi da parte degli Houthi dello Yemen, a metà tra pirateria e terrorismo marittimo, volti a destabilizzare le rotte commerciali e i traffici navali riconducibili ad Israele e agli Stati Uniti in transito tra Bab el-Mandeb ed il Mar Rosso Meridionale, non è ancora nata un’iniziativa multilaterale e neppure una posizione politica condivisa, sul modus operandi in opposizione a questa situazione.
Nel frattempo, il movimento yemenita danneggia l’economia mondiale. Ma chi addestra gli Houthi, o come si sono autodefiniti dal 2011 “Ansar Allah”, cioè “Partigiani di Dio”? La risposta è quasi scontata, il paese degli Ayatollah, l’Iran.
Yemen: crisi su scala globale
Si parla di guerra civile nello Yemen dal 2014, da quando l’Arabia Saudita, paese confinante, intervenne militarmente per sedare sul nascere il tentativo di colpo di stato degli Sciti Zaiditi del Nord, gli Houthi, nella capitale Sana’a.
Forse convinti di essere di fronte a una guerra di brevissima durata, l’Arabia Saudita, alla testa di una coalizione di paesi del Golfo, cercò di opporsi alla presa del potere degli Houthi, e per tutta risposta l’Iran iniziò ad armare queste frange militarizzate che iniziarono a colpire obiettivi sensibili ed energetici sauditi, costringendo lo stesso regno saudita nel 2022 ad intavolare una trattativa con gli Houthi per giungere a un cessate il fuoco.
E siamo quindi ai giorni nostri, con Israele che attacca la striscia di Gaza – la porzione più piccola dei territori palestinesi che dal 2007 è di fatto governata direttamente da Hamas – alla ricerca di Hamas, dopo l’azione degli stessi in Israele il 7 di ottobre.
Perché gli Houthi rappresentano un problema
Per i Paesi della penisola araba, i ribelli yemeniti rappresentano una minaccia reale per la loro sicurezza. L’Europa e gli USA hanno sempre trattato la questione con un approccio localizzato, come se il problema yemenita fosse distante dalla visione geopolitica.
Certamente è semplificativo e riduttivo raccontare lo Yemen come propaggine delle pulsioni espansionistiche dell’Iran perché gli Houthi sono assai autonomi, militarizzati e perseguono il raggiungimento dei loro obiettivi.
La crisi del Mar Rosso, il cui inizio possiamo identificare con l’avvio della guerra Hamas-Israele del 7 ottobre 2023, certamente segna un punto a favore di Teheran, ma accende i riflettori sul fallimento del Governo Yemenita per quanto concerne le sue politiche socioeconomiche, e regala il ruolo in chiave di referenti ai “partigiani di Dio” (Houthi) per la causa palestinese in chiave anti-israeliana, in primis, anti-americana e, infine, anti-occidentale.
Gli Houthi possono così porsi nei confronti dei paesi arabi del Golfo da una posizione di forza, ergendosi a leader tra i partner della galassia iraniana e, nonostante i raid anglo-americani, sembra difficile ipotizzare che gli Houthi si fermino.
Superare le divisioni internazionali
Benché la crisi globale del trasporto marittimo sul Mar Rosso sia conclamata, l’ONU non è ancora riuscito a presentare una risposta adeguata e soprattutto unitaria.
Infatti, la risoluzione approvata il 10 gennaio 2024, deliberata con lo scopo di intimare agli Houthi di cessare immediatamente ogni forma di ostilità sul Mar Rosso e di rilasciare la Galaxy Leader, la nave con equipaggio fermata in data 19 novembre 2023, è passata solo grazie all’astensione della Russia e della Cina, membri con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza. Non è certo un bel segnale di coesione internazionale.
E in Europa?
Sono immediatamente emersi i distinguo in seno all’Unione Europea: Italia e Francia hanno deciso di non partecipare alla Prosperity Guardian, la missione promossa da Stati Uniti e Regno Unito, preferendo il Comando Nazionale di Parigi con le flotte Navali Europee riunite nella missione European Union Naval Force Operation ATALANTA, con esclusione della Spagna che ha ritenuto di non partecipare.
Mentre Bruxelles analizza il problema degli Houthi, i cui attacchi sono solo una faccia della crisi globale innescata da questi atti di pirateria, la chiave di volta potrebbe trovarsi nella missione EMASOH-ARGENOR, di stanza ad Abu Dhabi, promossa da alcuni paesi europei, all’indomani degli attacchi alle petroliere in transito tra Hormuze il golfo dell’Oman nel 2019, mossi dall’Iran.
Al di là dei distinguo dei paesi europei, le compagnie marittime si sono da tempo organizzate rivolgendosi ad Agenzie Private di Sicurezza.
Posizioni di politica estera differenti anche nei paesi del Golfo
Se per il Pentagono le divisioni interne all’Europa non sono una novità, e non impensieriscono più di tanto, lo stesso non può dirsi a fronte delle posizioni espresse dalle Monarchie dei paesi arabi, Bahrein escluso: lì è di stanza la V° flotta americana.
Riad ha espresso ”grande attenzione” per l’attacco degli americani, gli EUA hanno sottolineato altresì la minaccia Houthi, il Qatar aveva espressamente apostrofato Washington dall’evitare ritorsioni armate, ed infine l’Oman, parte in causa con una mediazione con lo Yemen, ha espresso condanna senza mezzi termini per l’azione di ritorsione anglo-americana.
Un quadro che delinea un nemico comune, ma posizioni di politica estera differenti, nonostante la comunanza e la visione sulla sicurezza marittima.
L’importanza strategica del Mar Rosso
Si è resa necessaria la minaccia Houthi per rimettere al centro di ogni discussione l’importanza della navigazione libera sul Mar Rosso.
Naturale via di comunicazione da sempre tra l’Oceano Indiano ed il Mediterraneo, è diventato uno snodo nevralgico a livello mondiale; la concomitanza dell’invasione russa in Ucraina, e la rivalità strisciante ed endemica tra Stati Uniti e Cina, ha eroso buona parte del predominio occidentale.
Infatti, il Medio Oriente non è restato inerme, ottenendo concessioni portuali, infrastrutture già esistenti e in via di realizzazione, porti ed aeroporti, nel Corno D’Africa e nello Yemen in primis.
Naturalmente tutto questo processo si è accompagnato di pari passo ad una forte militarizzazione della Regione del Mar Rosso, a scapito della sicurezza globale, anzi rianimando conflittualità mai sopite.
Il Mar Rosso ci ricorda quanto basilare sia la sicurezza nella navigazione a livello globale: in questo lembo di mare transita ogni sorta di merce, dai cereali ai metalli, dal petrolio ai componenti elettronici.
Le divisioni che invece frammentano il mondo globale, allontano qualunque soluzione condivisibile; gli Houthi intanto alzano il tiro dal loro osservatorio strategico, quello che fino a poco tempo fa era identificato come “il periferico Yemen”, famoso per la sua capitale, Sana’s, considerata patrimonio dell’Unesco per la sua architettura.
I nuovi dati della crisi in Mar Rosso
I costi di trasporto di un container tipico da Shanghai a Genova sono più che quadruplicati nel giro di un mese e mezzo e la crisi sta contagiando zone del mondo anche molto lontane. Persino i costi di trasporto da Shanghai a Los Angeles, dunque su una tratta che attraversa l’Oceano Pacifico, sono raddoppiati.
A metà gennaio il traffico dello stretto di Bab el-Mandeb si era ridotto a più della metà (-55%), riflettendosi sul traffico attraverso il canale di Suez (-40%). Allo stato attuale, l’Egitto rischia di perdere quattro miliardi di dollari di entrate dal Canale di Suez, che equivalgono all’uno percento del proprio PIL.
Nei porti italiani, invece, la crisi al momento sembra essere rientrata. Dopo un primo brusco calo da metà dicembre 2023 (che a metà gennaio 2024 ha toccato anche il -25%) il numero di grandi navi che raggiungono i sei maggiori porti italiani è risalito verso livelli normali, attestandosi nell’ultima settimana sul -5%.
Tra la fine di novembre 2023 e il 25 gennaio 2025, come detto il costo per trasportare un container tipico da Shanghai a Genova è più che quadruplicato, passando da 1.400 a 6.400$. È una vera conseguenza diretta del rischio che le navi commerciali che attraversano lo stretto di Bab el-Mandeb da o verso il Canale di Suez diventano un bersaglio per gli attacchi dei ribelli Houthi in Yemen. Non è la prima volta che negli ultimi anni il commercio marittimo mondiale va incontro a una crisi di portata simile. Nel corso del 2021, con la ripresa dal commercio alla fine delle peggiori ondate della pandemia, il costo di trasporto mondiale di un container tipico aveva superato i 10.000$, per poi tornare a scendere. Stavolta, però, la crisi ha avuto uno sviluppo più rapido del 2021 quando occorse circa un anno per arrivare al suo picco e 7 mesi per superare quota 6.000$ contro il mese e mezzo attuale. E anche se resta ancora una crisi regionale, ci sono segnali che la crisi stia avendo conseguenze anche sui luoghi molto distanti dal mondo. Il costo per trasportare un container da Shanghai a Los Angeles, per esempio attraversando l’Oceano Pacifico, è ormai raddoppiato.
Dall’ultima settimana di gennaio 2024 ci sono segnali che la crisi si stia “stabilizzando” o forse sarebbe meglio dire cronicizzando. I passaggi di grandi navi portacontainer, petroliere o metaniere dagli stretti di Bab el-Mandeb e di Suez non è più in calo continuo ma si sta stabilizzando su livelli rispettivamente di -55% e di – 40% rispetto a quelli precrisi. Il motivo per cui il crollo del traffico da Suez è leggermente meno pronunciato è che una parte delle navi portacontainer, petroliere e metaniere che attraversa il canale si ferma nei porti che affacciano sul Mar Rosso, per esempio, quello Saudita di Jeddah. Per l’Egitto, comunque, una riduzione dei traffici di questa entità da Suez significherebbe una perdita di circa quattro miliardi di dollari, l’1% del PIL egiziano, ma soprattutto uno dei principali afflussi di dollari, moneta forte, e un salvagente per un paese che l’anno scorso è stato costretto a utilizzare la metà delle entrate fiscali dello Stato per pagare gli interessi sul debito.
Stando agli ultimi dati, la riduzione dei traffici nei sei principali porti italiani (Genova, Venezia, Trieste, Gioia Tauro, Augusta e Livorno), che insieme rappresentano il 54% delle importazioni e il 40% delle esportazioni marittime italiane, sembra essere significativamente rientrata. A fronte di un picco che ha bloccato anche almeno 20% nelle prime fasi di questa crisi, nelle ultime due settimane il flusso è in netta ripresa e sembra attestarsi intorno al -5%. La situazione è però in continua evoluzione ed andrà attentamente monitorata nel corso del tempo.
Oltre al duro colpo subito dal trasporto marittimo internazionale, nuove preoccupazioni su di una possibile impennata dei prezzi dell’energia sono emerse poiché la regione è uno dei principali esportatori di petrolio verso i mercati di tutto il mondo. Secondo S&P Global, il 24% delle navi reindirizzate dal Canale di Suez dal 15 dicembre 2023 erano petroliere per il greggio. Le navi portarinfuse rappresentavano circa il 35% e le navi portacontainer un altro 24%. Circa il 90% del petrolio che scorre attraverso il Bab el-Mandeb proviene dal Golfo Persico ed è destinato all’Europa e all’Africa. Il restante 10% è costituito dal petrolio del Corno d’Africa. Il Mar Rosso è anche una via di transito per circa l’80% del petrolio russo destinato ai mercati asiatici e l’8% del commercio globale di gas naturale liquefatto.
Un aumento dei prezzi del petrolio, un ingrediente chiave nel carburante per automobili, può portare a un aumento dei prezzi alla pompa e anche a un aumento dell’inflazione.
In questo contesto, l’Europa è quella che rischia di perdere di più a causa dell’aumento dei prezzi dell’energia: nel cercare di allontanarsi dalla dipendenza russa ha fatto affidamento sul gas liquefatto e la maggior parte del gas liquefatto che scorre attraverso il Bab el-Mandeb e il Canale di Suez è diretto verso l’Europa.
Lo spostamento delle merci via mare è l’unica opzione? Rogers afferma che il trasporto di merci su rotaia richiederebbe invece di “attraversare la Russia”, che è soggetta a sanzioni economiche a causa dell’invasione dell’Ucraina, mentre “i trasporti su strada dal Golfo a Israele potrebbero compensare solo circa il 3% delle spedizioni”.
Gli impatti per le imprese e i consumatori
Il risultato sono supplementi di spedizione per alcuni servizi e ritardi nell’arrivo di alcuni prodotti e componenti. Ciò ha portato all’esaurimento delle scorte e persino all’arresto delle linee di produzione. Finora, l’interruzione non ha colpito le catene di approvvigionamento e le aziende nella stessa misura della pandemia di Covid-19 ma è inevitabile che le catene di approvvigionamento vengano influenzate – con esaurimento delle scorte e persino all’arresto delle linee di produzione – a causa del dirottamento delle navi dal Mar Rosso. Secondo Chris Rogers, responsabile della ricerca sulla catena di approvvigionamento presso S&P Global Market Intelligence, i beni di consumo, che sono potenzialmente soggetti a nuove pressioni inflazionistiche, “avranno l’impatto maggiore” poiché l’attuale interruzione si è verificata “durante la stagione di navigazione non di punta”.
Il colosso dell’arredamento Ikea e il rivenditore britannico Next hanno entrambi avvertito che le forniture dei prodotti potrebbero essere ritardate se le interruzioni delle spedizioni dovessero continuare. Tesla ha sospeso la produzione nella sua unica fabbrica europea di auto elettriche a causa dell’interruzione delle forniture.
Il quadro potrebbe però essere eterogeneo: mentre per le imprese di navigazione si può prevedere, nel breve termine, un aumento della redditività grazie sia all’aumento delle tariffe sia all’utilizzo dell’eventuale capacità in eccesso sulla rotta alternativa più lunga attorno al Capo di Buona Speranza, al termine delle ostilità le tariffe dei container potranno ridiminuire e la capacità in eccesso tornerà a rappresentare un utilizzo non remunerativo di capitale circolante.
Nel breve termine, anche gli operatori del trasporto aereo potrebbero trarne vantaggio poiché le aziende che normalmente spediscono merci via mare cercano di garantire una consegna più rapida per merci selezionate e di dimensioni adeguate al trasporto via cargo.
Molte aziende di vendita al dettaglio sono in prima linea nella crisi, soprattutto quelle il cui business model prevede la circolazione delle merci dai produttori asiatici ai consumatori nel resto del mondo in quanto tempi di spedizione più lunghi possono portare a ritardi nel reperimento delle scorte e a costi più elevati. Per i rivenditori di moda la ricerca di rotte o mezzi alternativi comporta l’incremento dei costi di trasporto che impatterà sia sui margini di profitto – erodendoli – sia sui prezzi di vendita – aumentandoli.
L’impatto sul settore dei prodotti tecnologici potrebbe essere inferiore in quanto mentre gli articoli più grandi (televisori, macchinari e veicoli) seguono le rotte marine, i più piccoli vengono usualmente spediti via aerea. Così se, da un lato, da una grave interruzione delle spedizioni di automobili potrebbe derivare una riduzione della domanda per i fornitori di semiconduttori per l’industria automobilistica, dall’altro le aziende tecnologiche a supporto della difesa e della sicurezza informatica potrebbero trarre vantaggio dall’aumento dei conflitti nella regione.
Conclusioni
La crisi del Mar Rosso – che si fa notare per la centralità di questa via marittima nella libertà della navigazione – ha fatto emergere la mancanza di una iniziativa multilaterale e, di conseguenza, la grande frammentazione dell’ordine internazionale caratterizzata da una sempre maggiore erosione dell’influenza dell’occidente e una maggiore militarizzazione che ha comportato un aumento delle conflittualità.
Nel mentre della gestione della situazione in atto, con uno sguardo al prossimo futuro, le aziende, che non possono più non considerare i rischi geopolitici nelle loro scelte strategiche, stanno riconsiderando dove avviare future partnership e come proteggersi, riconoscendo che non tutti i luoghi del mondo e non tutte le partnership transfrontaliere sono uguali. Ciò visto anche l’avvento della Due-Diligence Directive (o Supply Chain Directive) che impone alle grandi imprese (e ai loro partner nelle catene commerciali) responsabilità allargate in materia di diritti umani e di sostenibilità.